sabato 3 maggio 2014

Dolceamaro

"Per me un cappuccino. Tu cosa prendi?". Mia madre mi sta guardando. Anche Paolo, il ragazzo del bar. Devo decidere. "Ehm…un americano, per favore", dico, mentre gli sorrido. 

E' martedì mattina, sono tornata nella mia città per qualche giorno e, subito dopo pranzo, prenderò il treno per tornare in metropoli. Avrò un pomeriggio impegnato. E poi, l'indomani, un esame.
E' martedì mattina e mercoledì, cioè domani, avrò un esame. Ematologia, un esame piccolo e circolare, le cui conoscenze base si chiudono e hanno un confine netto, oltre il quale si ricade nel territorio specialistico. Un confine che io ho sempre fatto fatica a vedere e mi è sempre riuscito un po' ansiogeno, perché mi ha puntualmente fatto sbattere la faccia contro il fatto che "potrei/dovrei" studiare tante cose in più rispetto a quelle che già conosco. Perché le mie conoscenze non sono complete. Anzi, sempre troppo scarse. Eppure, questa volta, qualcosa è andato diversamente. Vedo quel confine come un muro che mi protegge e che mi dà sicurezza. Vedo quel confine come semplicemente un mondo che non mi appartiene.
E' martedì mattina e ieri, cioè lunedì, ho ripetuto tutta ematologia, dalla prima all'ultima parola, senza aprire gli appunti. Non mi è mai successo. Non ho mai studiato così bene per un esame. Non mi son mai sentita "pronta" come questa volta. E, ancora, non ho mai tracciato un confine così netto tra le informazioni base, che conosco, e quelle accessorie, che, in un certo senso, non mi riguardano. E' tutto così strano, che non riesco a spiegarmelo. E' martedì mattina (e questo, potrei giurarci, l'avete capito), ma non mi sembra la mattina prima di un esame. E, oggi, il caffè americano ha un gusto particolare. E' un dolce-amaro che non riesco a spiegare.

Bianco-nero. Tutto-niente. Io funziono così. L'unica coppia che mi manda puntualmente nel pallone è "destra-sinistra". E non è un allusione politica, dovreste venire in macchina con me. La scena è sempre la stessa. Di fronte a un bivio, voi mi direste: "Gira a destra". E io vi risponderei: "A destra, QUALE???". Non ho mai imparato a distinguere la destra dalla sinistra e invidio tutti coloro che lo fanno senza quasi pensarci, come se fosse immediatamente ovvio. Io ho bisogno di gesticolare: "gira di qua", "gira di là". "Toglimi la mano da davanti agli occhi!". All'esame di guida, l'istruttore mi indicava la direzione con le mani. Oltre il fatto che usava liberamente i pedali.

Martedì sera, sono in casa. Guardo "Being Erica" al computer, ma penso ad altro. "Ansia, dove sei?". Sì, è come se l'aspettassi, ma non arriva. O, se arriva, non è quella che è sempre stata. Non ho aperto libro per tutto il giorno. E ora, perché l'ansia non mi fa dare almeno una sbirciatina agli appunti?

Mercoledì mattina. Piove, dannazione!! Vado con Stefano in università. Diamo due esami diversi, lui parla tantissimo, io sono sorprendentemente molto silente. Sono concentrata, non agitata. Ho la testa vuota, non piena. Entro nell'aula, incontro qualche studentessa, ascolto i soliti mantra dei narcisi: "nonhostudiatoniente", "nonsoniente", "hofesteggiatolaPasquaequindinonhostudiato", "hocompratouncucciolodicaneequindinonhostudiato", "misachevadoagiugno". 
Alzo gli occhi al cielo. E infatti piove. Mi viene da ridere per la ripetitività, mi viene in mente "stessa storia, stesso posto, stesso bar", ma per una volta non mi sento l'esule solitario che entra da sfigato tra gente figa. Non mi chiedo "che cos'è che faccio qui?", lo so benissimo. Non sento un muro tra me e gli altri, non sento un'ansia che mi assale. Sento solo un senso di noia. In mezzo agli "oddiononcelafaròmaiepoimai" non mi sale il vaffanculo. Strano. Sono solo in attesa di sentire i primi "opshopresotrentaelode", conscia del fatto che la lettera estratta nel semestre fa sì che io sia l'ultima interrogata. E quindi me li dovrò sorbire tutti quanti.

Ma avviene tutto in un momento. Il professore sbaglia la lettera e dice che la mia è la prima, quindi divento seconda interrogata. I docenti in commissione, che sono tre, interrogano singolarmente, quindi è come se fossi prima. Sono chiamata dal docente con cui ho già sostenuto anatomia patologica.

"Lei cosa vuole fare dopo? Frequenta già in reparto?" è la prima domanda.
"Sì, frequento in psichiatria. Voglio fare la psichiatra".
Lui sorride. "E io cosa cavolo chiedo di ematologia a una psichiatra??".
E' l'esame più disteso che abbia mai sostenuto. Siamo seduti l'una di fianco all'altro e stiamo chiacchierando. Mi presenta un caso clinico. E io parlo, parlo, parlo. Mi sembra, per la prima volta, un esame di medicina vera. Gli racconto dell'anamnesi, dell'esame obiettivo, gli parlo di tutti gli esami che posso chiedere, gli dico come ragiono. Vuole sentirmi dire anche le cose non puramente ematologiche, gli va bene e non mi ferma. Alla fine abbiamo spaziato un sacco tra varie cliniche. Senza domande da parte sua abbiamo coperto molti argomenti ematologici, come diagnosi differenziali.
"Per me può bastare", mi dice alla fine, "è soddisfatta dell'esame?".
"Decisamente sì", rispondo.
"Anche io", mi sorride.
Firmo lo statino e volo via. Sono la prima ad uscire dall'aula, è il quarto esame dell'anno e siamo sotto la quota dieci dalla fine. Non mi sembra di aver appena sostenuto un esame. E' tutto così strano. Ansia, dove sei? Che fine hai fatto?
Cammino verso l'aula computer in attesa che anche Stefano finisca. Mi collego a un sito per vedere gli smartphone in offerta. Da un po' sto pensando di prenderne uno. Ho ancora un vecchio nokia, di quelli con i tasti. Niente internet, niente whatsapp, niente e-mail. Se lo lascio su un marciapiede oggi e ripasso dallo stesso punto la settimana prossima, probabilmente, lo ritrovo ancora lì. Penserebbero che sia il telefono di una povera vecchietta rimbambita e non avrebbero cuore di rubarlo. Non so se farò il passo verso lo smartphone con facilità per molte ragioni, ma inizio ad informarmi.
Fuori piove. Stefano finisce. Prendiamo la macchina e andiamo ad un centro commerciale. Io mi sento ancora molto strana. Lascio il giardino dei narcisi e non capisco come mai io provi questa sensazione di leggerezza. Non capisco come mai, una situazione d'esame che, fino a non troppo tempo fa, mi avrebbe causato preoccupazione, ora mi scivoli addosso come niente. Non so nemmeno dire se mi piaccia o no. 

So solo che mi sono sempre sentita come una marziana sulla Terra; da un po' di tempo a questa parte, invece, ho cominciato a sentirmi come un'umana su Marte. Ed è strano.

Staremo a vedere.

lunedì 7 aprile 2014

La dottoressa F.

"Caffè insieme?". 
Da un po' di tempo i miei SMS sono diventati criptici. Cerco di scrivere mentre guido, intanto freno piano piano, per prepararmi a entrare nei box. I box di casa mia sono in una pessima posizione, poco dopo una rotonda (rotatoria, pardon), quindi devo rallentare gradualmente, proprio lì dove tutti accelerano. Guardo nel retrovisore se il pirla dietro di me sta rallentando o mi sta venendo nel culo con impazienza, da buon metropolizzato. E infatti, è lì a pochi centimetri. "Ma cazzo", penso, "se rallento in mezzo alla strada un motivo ci sarà, no?". E invece no. Riesco a svoltare senza che mi tamponi, mi volto appena in tempo per vedere il signore di fretta che prosegue gesticolando e inveendo contro di me dall'interno del suo abitacolo. Se avessi un discontrollo degli impulsi potrei scendere e menarlo, poi potrei pure cercare di scaricarmi delle responsabilità con il mio psichiatra. L'ipoglicemia conta? Posso menarlo e poi andare il PS a dimostrare un'ipoglicemia data dal fatto che è DA IERI SERA CHE NON MANGIO?

Sono le 13.56. Alle 8 di questa mattina mi sono svegliata, con un'ora di ritardo, perché non sento più la sveglia. In qualche modo sono riuscita ad uscire per le 8.20 e, arrivata in reparto, ho prelevato tutti i pazienti da prelevare per il nuovo studio di ricerca, ho ricevuto un capitolo di un libro da leggere dal prof, ho chiamato tutte le persone con cui il prof voleva parlare, ho evitato il prof (è difficile, perché cambia sempre stanza...),  ho scritto due anamnesi, visto i 5 colloqui del reparto e qualcuno ambulatoriale, ho detto ad un sacco di persone che, per aprire gli armadietti, devono chiedere agli infermieri perché io non ho le chiavi. Ho aperto la porta a tutti quelli che volevano uscire ed avevano il permesso, ho schivato i fotografi di una nota rivista da spiaggia femminile che facevano foto agli specializzandi per un articolo sulla depressione (ironia della sorte!), ho cercato di convincere una paziente che la collana che avevo addosso e che le piaceva tanto l'ho presa al mercato un sacco di anni fa e NO, non può lasciarmi i soldi per prenderla anche a lei. Ero nella stanza all'ingresso, che si chiama acquario, perché è tutta a vetri. (Ok, ci arrivavate anche voi.) E' una specie di portineria, perché il nostro reparto è tutto chiuso a chiave, quindi qualcuno deve aprire quando i pazienti o i parenti o gli psicologi o i medici che dimenticano le chiavi suonano. In acquario c'è un computer, la mia salvezza, quando tutti gli altri sono occupati, quindi mi sono messa lì buona buona per inserire i dati nel database e poi filarmela. Nel frattempo arrivavano i messaggi di Steve, che mi raccontava di un paziente più giovane di me: "aveva aritmie sovraventricolari e ogni tanto TV non sostenute. Arrestato e ab ingestis". Penso che per fare l'anestesista ci vogliano i controcoglioni in tutti i sensi, soprattutto quando rientri a casa dalla tua famiglia. Come fai a non incazzarti con i bambini che fanno i capricci? Io invece "me la spasso" nell'acquario…faccio un po' la portinaia, combatto l'ipoglicemia, cerco i dati velocissima, compilo tutte le caselline fino a che…

"Dottoressa…".
Nella periferia del mio campo visivo intravedo qualcuno. Alzo gli occhi. Davanti al vetro si è fermato un paziente che non conosco, grassottello, che mi guarda. Ho una latenza di risposta significativa, sto pensando al database, a Steve, al ragazzo arrestato e poi ho fame, quindi non penso bene a niente.
Ci riprova. "Dottoressa…perché lei è una dottoressa, vero?".
Odio questa domanda. Non so mai cosa rispondere. No, non lo sono, se mi vuoi dire una cosa importante, che è meglio che tu dica a un medico vero, quelli con il timbro in tasca. Ma sì, posso esserlo, se devi chiedermi di farti uscire. A parte che, con quella faccia, prima di farti uscire chiederei conferma dei permessi agli infermieri. Quindi che fare…voi sapete qual è la domanda magica degli psichiatri?…beh, ve la rivelo. Fatene buon uso.
Sorrido beffarda. "Perché lo vuole sapere?". Le richieste che vengono fatte nel nostro reparto sono le più strane. I pazienti possono volerti chiedere solo di aprire loro la porta e quindi lo fai di buon grado. Possono volerti raccontare un po' di loro e ascolti. Possono aver bisogno di aiuto e, quando riesci, aiuti. A volte però ti chiedono di comprare collane,  ti coinvolgono nei loro deliri o ti dicono che sei stra-figa, con tanto di commenti sulla tua sessualità. Fa tutto parte della psicopatologia, ma meglio andarci cauti e non dare confidenza quando sei studentessa e la persona che hai davanti è un paziente che non conosci.  E infatti…
Il paziente si è convinto del fatto che io sia una dottoressa e mi dice, con fare complice: "Lei c'era quando hanno fatto le fotografie?" (quelle della rivista da spiaggia).
"Si, c'ero".
"Per che rivista erano?".
"Perché me lo chiede?".
Mi guarda con un mezzo sorriso e aria complice. "Ha presente la dottoressa F.?".
(La dottoressa in questione è una delle specializzande del reparto). 
"Sì, ce l'ho presente".
"Ecco, lei è veramente una bella donna. Io saprei su che rivista pubblicare le sue fotografie! Lei non trova che sia una bella donna?".
ECCO, LO SAPEVO. "Diciamo che non sono proprio i miei gusti. Comunque credo che la rivista delle foto di questa mattina sia di un genere un po' diverso rispetto a quello che pensa lei". Credo!
"Sa dove è adesso la dottoressa F.?"
"No…". E persevera.
"Mi apre lo studio medici?". E persevera. Ci vuole una fine strategia clinica qui, penso. Vediamo se tutto quello che mi hanno insegnato è vero. 
Guardo l'orologio, poi guardo lui e dico: "Accidenti, è quasi ora di pranzo, non mi ero accorta. Lei non ha fame?"
"No, dottoressa, in reparto si mangia male. Pensi che alla mattina c'è sempre il latte con le fette biscottate, il pranzo cambia. Ieri… … … […]". E va avanti così, raccontandomi il regime alimentare ospedaliero.
Inserisco gli ultimi quattro dati nel database, salvo tutto ed esco dall'acquario mentre lui continua a parlarmi dei pasti che ha consumato da quando è entrato, con qualche digressione di tanto in tanto. 
Lo accompagno fino alla sala da pranzo e gli dico "ora le conviene mangiare, sono arrivati i vassoi".
"Dottoressa, grazie! E' bello parlare con lei!".
Lo saluto e me ne vado. "Andiamo bene", penso. La stessa cosa me la disse anche una ragazza con esordio di schizofrenia, una volta. Ma in fondo sorrido. Penso che stare lì mi piace, che non mi annoio, che ho capito la diagnosi. Penso di preferire questo mondo di pazzi a quello che sta oltre la porta chiusa a chiave.

Scappo dal reparto, salgo in macchina e volo verso casa per posare la macchina. Ho l'incontro con il pirla che mi vuole tamponare ad ogni costo e mando l'SMS criptico a Steve per il caffè.
Arrivo in università trafelata, la lezione è già iniziata, ma io ancora non ho mangiato. Inizio a bere il caffè e penso, sognante: "magari mi ordino un panino". Ma è un attimo. Steve prende in mano il cellulare e mi strattona per un braccio. Ha la faccia dell'ansia e mi dice solo due parole chiave. "FOGLIO FIRME". Ma porca….! Ingollo tutto caffè e via di corsa verso l'aula. Addio panino.
Mi siedo nelle ultime file. Il prof. sta leggendo le slide. Dà le spalle alla classe per metà del tempo. E' vestito in un modo che non riesco a capire se sia appena stato a mangiare la polenta in un rifugio di montagna o a bere vino nell'osteria che c'è qui vicino. E poi, miseriaccia, ci sono già le zanzare...

giovedì 27 marzo 2014

Nelle relazioni interpersonali, almeno quelle che mi riguardano da vicino, vorrei che A significasse A e soltanto A. Insomma, che A non potesse significare B, solo per il fatto che A non è B.
Ma allora perché, miseriaccia, dietro al profilo dell'A si comincia a vedere una B e il tutto alle 22.21 di sera, quando sono stanca morta?

giovedì 20 marzo 2014

Semestre nuovo, ragazzo nuovo, sport nuovo. Stesso reparto, stessa città incasinata, stessi pensieri.

Mi ripresento sul blog dopo un mese. Come una persona che non riesce più a respirare al chiuso, corre verso la finestra, la apre e caccia fuori la testa. ARIA!
Dunque, in questi mesi molte componenti della mia vita sono cambiate. Ma, al netto di qualsivoglia sconvolgimento, tutto procede come sempre: ero in reparto quando si è scatenata una minirissa tra pazienti, ero in studio medici quando un ragazzo incazzato sembrava voler tirare giù la porta a pugni. E' strano: quanto ti ritrovi in balia di una situazione con potenziale di rischio medio-alto, non puoi prevedere quale sarà la tua reazione. Ero nello studiolo con un'altra dottoressa, sentivo da fuori il paziente urlare e incazzarsi. Poi dei colpi secchi alla porta. Io ero alla postazione computer esattamente a lato della porta e, al primo colpo, il cuore mi è arrivato in gola. Poi tutto si è risolto per il meglio e nessuno si è fatto male, ma io, me ne rendo conto, ero decisamente pronta a combattere. Sì, il paziente era più grosso e forte di me. Ma quali erano le scelte?

Nel mio reparto non ci si annoia mai. Almeno, io che adoro i pazienti non mi annoio mai. E questo, per me, è fondamentale. Dico sempre di non capire come facciano le persone a seguire strade che non amano, ma credo che, se non fosse stato per psichiatria, io avrei fatto lo stesso con qualunque altra branca della medicina. Non mi va di sbrodolarmi nei discorsi che mi piovono addosso ogni giorno ("la cultura medica è fondamentale", "ho scelto la facoltà di medicina perché mi interessava comprendere il funzionamento del corpo umano", "ho amato tutte le cliniche e mi interessano tutte a tal punto da non sapere quale scegliere"), perché per me queste cose non valgono. Dette da altri sono cose bellissime e, nonostante tirino fuori i miei peggiori istinti, rispetto chi dice tutto ciò credendoci. Ma, se quelle parole uscissero dalla mia bocca, sarebbero solo uno sputacchio di cazzate.  Ho creduto a lungo di essere nel posto sbagliato, per questo, di non aver trovato la strada più adatta a me. Ho sofferto molte cliniche per disinteresse, ho perso ad ogni esame un pezzettino di me, perché avevo la sensazione di essermi imbarcata nel progetto di investire la mia vita dietro a cose che non mi interessavano. Capiamoci, ho sempre studiato con diligenza e senso del dovere, cercando di imparare il più possibile per responsabilità di chi mi capiterà tra le mani un giorno. Ma la materia, c'è poco da fare, non mi piace. Che mi si parli di OCT3/4, scompenso, di glomerulonefrite, di morbo di Cushing, di sindrome di POEMS…niente da fare. Prima di quest'anno, gli unici corsi che hanno risvegliato il mio interesse sono stati embriologia, genetica, malattie infettive (un po' meno) e chirurgia, perché chirurgia comprende tante patologie comuni, ti dà un'idea di come affrontarle, di come muoverti e poi ti fornisce un quadro pratico complessivo, uno sguardo sull'insieme.  Quest'anno, tutto è cambiato. Ho veramente amato psichiatria, ho apprezzato la neurologia. Ora sto pian piano ricominciando a odiare ematologia e tutto il resto e il mio umore ne risente, anche se, la frequentazione del reparto mi dà una spinta enorme. 
Quindi non ho scelto medicina per una vocazione strettamente, biologicamente medica o per cultura. L'ho scelta per l'idea di medico che avevo in testa. Perché volevo fare il medico, indipendentemente dalla medicina. 
Inizialmente volevo fare il chirurgo, per poter partire con qualche organizzazione non governativa. Poi, col tempo, mi sono convinta che la psichiatria potesse essere affar mio. In tutto questo ho conosciuto delle persone che mi sono servite da esempi, riferimenti, insegnanti e amici.
Ho conosciuto l'abbiente spento di una sottosezione di un reparto di pediatria, ho assistito alla mancanza di comunicazione in una medicina interna, quanto una visita tira l'altra e meno il paziente parla e meglio è. Così è successo che, visitando il paziente in autonomia, gli ho chiesto se avesse qualcosa da dirmi. E lui ha cominciato a piangere, dicendomi che nessuno lo ascoltava, che voleva solo andare a morire a casa dai suoi nipotini. Me li descrisse uno ad uno, e mi ricordo la loro descrizione come se fosse ieri. Se penso a quel vecchietto e al suo vissuto, se penso al modo sbrigativo in cui è stato trattato in uno dei momenti coscienti più critici della sua vita, che per assurdo è proprio quel momento prima della morte…mi chiedo come sia possibile. Mi chiedo che senso abbia, non tanto fare il medico, ma essere umani, se poi non si fa quel piccolo passo verso l'altro. Lo so, lo so…il lavoro, la fretta, il poco tempo…ma che cazzo, sono solo scuse.
Ho conosciuto delle persone splendide in Malattie Infettive. Quattro medici tosti e umani, che mi hanno insegnato molta più medicina degli altri e che mi hanno fatto amare il fatto di andare in reparto, arrivare sempre mezz'ora prima per prendere il caffè insieme, dire due parole, contarsela su. Ho visto gestire dei casi difficili di malattie croniche e mortali, ho visto persone sorridere e aprirsi. E poi anche morire. E' vero, si muore comunque, alla fine. 
Oggi ho visto, con la dottoressa a cui sono assegnata, un signore che si presentava in prima visita, con una sindrome depressiva reattiva di fronte ad una situazione familiare e economica disastrosa. "Sindrome depressiva reattiva" significa che hai dei sintomi della depressione in corrispondenza di eventi esterni stressanti che non riesci ad ammortizzare, per questioni personologiche tue e/o perché gli eventi stessi sono effettivamente di grossa portata. Però, in questo caso, non hai la malattia nota come "Depressione", che è un'altra entità a sé stante. Dal punto di vista strettamente psichiatrico, l'approccio farmacologico alle due è diverso. Nella malattia "Depressione" c'è un approccio abbastanza ben definito, tale per cui i pazienti che cadono in questa categoria vengono definiti in effetti pazienti di pertinenza psichiatrica. Nella sindrome depressiva reattiva non c'è un trattamento univoco. Di solito si imposta un antidepressivo, qualcosa per lenire l'ansia del paziente e farlo dormire bene. Essendo una patologia in cui manca l'adattamento della persona ad un cambiamento della realtà che la circonda, di solito, si consiglia una psicoterapia che spessissimo dà buoni esiti.
Il paziente di oggi era di mezz'età. Gli è stata data la terapia farmacologica e gli è stata fissata una visita di controllo tra un po' di mesi. "A un cinquantenne cosa serve fare psicoterapia? Non cambia niente". Questa è stata la spiegazione che la dottoressa mi ha dato.

Io non dico che sia sbagliato. Non mi permetto di contraddire, almeno per ora, chi ha più esperienza di me, avendo già avuto prova che questa stessa dottoressa mi può insegnare molto. Pochi giorni fa mi ha fatto vedere come, in modo molto sottile, avrei totalmente sbagliato una diagnosi.
Ma stasera non riesco a togliermi dalla mente il fatto che abbiamo mandato a casa un uomo sull'orlo della rovina, con qualche farmaco che lo farà dormire, un antidepressivo di non comprovata efficacia per il disturbo e che comunque ci metterà almeno 2-3 settimane a fare effetto. E non gli abbiamo dato nemmeno la chance di parlare con qualcuno dei suoi problemi, solo per l'età, per la duttilità del pensiero che viene meno.
Questa sera non riesco a togliermi dalla mente il fatto che, se fossi stata io una cinquantenne sola e senza un soldo, se fossi stata ancora viva e pronta a chiedere aiuto, forse avrei tratto giovamento da qualche incontro settimanale. O anche un po' diluiti, visto che il SSN esita un po' a dare assistenza ottimale a chi non può permettersela.
Non so che tipo di medico diventerò. Non so se entrerò mai in specialità, né tantomeno dove, viste le nuove regole non ancora ben definite. Non so che ruolo rivestirò e non mi importa di arrivare in alto. Spero solo di poter gestire queste cose in un altro modo, in futuro. Spero che il sacro furore della psicofarmacologia secondo-la-regola mi risparmi. Spero che l'esperienza non mi renda cinica.

"…per consegnare alla morte una goccia di splendore…di umanità…di verità" (cit.)

martedì 25 febbraio 2014

FINE DELA SESSIONE ESAMICOME PROMESSO
(foto di Nick Veasey)
Mi chiedevo quando avrei scritto questo post e - soprattutto - cosa avrei scritto. L'immagine a lato è riassuntiva.

La sessione OPN è giunta al termine proprio oggi e no, non sono fuori a festeggiare, perché sono troppo morta per farlo. Perché ho studiato 12 ore al giorno per gli ultimi 16 giorni. Perché domani mattina, comunque vada, mi alzerò e andrò in reparto. Non ne ho voglia, in realtà, e questo mi fa sentire a disagio, forse un po' in colpa. Io voglio fare la psichiatra, amo quella cosa lì. Solo, dopo questa tirata infernale, dopo tre esami dati in una sessione difficile e svangati con voti alti…vorrei un attimo di sosta. Vorrei tornare a casa dei miei, dalla mia famiglia. Dormire, uscire con mia mamma a bere un cappuccino, fare un giro. Perché no, farmi regalare qualche maglietta o un paio di jeans. Andare a correre, schiena permettendo (sì, fa ancora male…). Ma sento di non poterlo fare, perché in reparto va avanti lo studio senza di me, studio che forse diventerà la mia tesi. E allora vado. In momenti normali riuscirei a sorriderne. Ora posso solo stingere i denti e pensare che mi farà bene e mi servirà ad imparare cose nuove.

Tante cose sono cambiate in questo periodo. Mi sono obbligata a stare in situazioni nuove, che consideravo oltre la mia portata, ho affrontato molti dei miei limiti. Mi sono messa in discussione e ho dimostrato a me stessa di potercela fare. Che l'impegno paga. Era da molto tempo che la paura in qualche modo mi bloccava e avevo dimenticato questo lato combattente di me. Per poi riscoprirlo ancora vivo e forte, sotto un'impolverata di ansia. L'ultimo esame, neuro, enorme e preparato in tempi serratissimi che non lasciavano spazio a distrazioni ha smesso di essere un peso ed è diventato una sfida da vincere. Nel mezzo della preparazione esami ho cominciato una nuova relazione e la mia vita sta cambiando. Nemmeno troppo lentamente. 

Poi, beh, ci sono le cose che non cambiano mai. Ho imbarcato più figure di merda oggi di quante una persona media ne incameri nell'arco di un anno. Uscendo di casa ho avuto una mezza crisi isterica perché non riuscivo a chiudere la porta. Non si accostava più del tutto e io giravo compulsivamente le chiavi nelle due serrature, con l'ansia che cresceva, perché erano le 8.45 e tre quarti d'ora dopo sarete iniziato lo scritto. Dopo qualche minuto di tentativi la mia ansia deve essere stata così potente da risvegliare Stefano, che giaceva appoggiato alla parete del corridoio del condominio e mi aspettava con fare sconsolato, in preda alla nausea emicranica. Che molto intelligentemente ha guardato la porta, è rientrato e ha tolto la sicura. Al che la porta si è chiusa. Comunque, per la cronaca, in cuor mio avevo già deciso che avrei lasciato la porta aperta e sarei andata a fare l'esame comunque. Non lasciatemi mai niente di valore.

Mi sono persa nella mia università. Ho spinto tutte le porte da tirare che mi capitassero a tiro. Ho perso due minuti ad aspettare un ascensore, finché un signore non mi ha fatto notare il cartello "GUASTO". La mia ultima domanda a un mio amico prima di essere chiamata all'esame oggi è stata: "ma quanti sono i chakra?". Io penso davvero di dare l'impressione di essere scema,  sono talmente sconvolta e stanca che mi perdo i pezzi per strada.

E questa sera va così. Rimpiango un po' la tranquillità, perché, anche se mi sono tolta molti pesi in termini di esami, sento che sto veramente cambiando vita. E mi sembra che la nuova sia più bella, ma anche più caotica e con meno tappe di riposo. O forse io non so ancora goderne abbastanza. Forse non mi sento ancora nella posizione di prendermele.
Forse, e probabilmente è così, sono solo troppe pare. E domani passeranno, assieme alla stanchezza.

Buona notte,
Marta

I was once like you are now
And I know that it's not easy
To be calm when you've found
Something going on
But take your time, think a lot
I think of everything you've got
For you will still be here tomorrow 
But your dreams may not

mercoledì 5 febbraio 2014

Ci sono due tipi di studenti di medicina: i farmaco-prodighi, quelli che in casa hanno un armamentario farmaceutico e sarebbero pronti ad ogni evenienza. E i farmaco-restii, che con i farmaci ci vanno cauti e hanno lo stretto indispensabile. O forse neanche quello. E quando ti tagli in cucina, il disinfettante migliore è la saliva.

Ecco, io appartengo alla seconda categoria.

Ieri non riuscivo più a respirare. Sentivo il fiato corto, qualcosa non andava, era chiaro. A volte non serve lanciarsi in fantastiche diagnosi differenziali, basta applicare il primo punto del metodo scientifico, l'osservazione: vedere nuvoloni di polvere rotolare sul pavimento. "Forse è il caso di passare l'aspirapolvere". Forse. 
Valuto rapidamente l'opzione antistaminico, ma no. Se blocco gli H1 poi mi viene sonno e…devo studiare!
Così, alle cinque del pomeriggio, passo l'aspirapolvere in camera. Prima di passarlo in sala, mi viene l'ideona: "cià, già che ci siamo, rifacciamo anche il letto". 

E' stato così che non mi sono allontanata dal letto fino a sera. E non per dormire. Mi son bloccata piegata sul copriletto, un dolore acuto, poi più niente. La schiena non si muoveva più. Mi sono sdraiata. Ho smadonnato. E per un'ora sono rimasta ferma lì.

Poi piano piano mi sono alzata, diretta, passettino dopo passettino, all'armadietto dei medicinali. DESERTO

  • Paracetamolo scaduto nel 2011 
  • Erbe "per dormire" del 2010 (???) 
  • Tizanidina. Ok, il miorilassante c'è 
  • FANS seri: nemmeno l'ombra 
  • Tachidol
Allora recupero il tachidol: penso che dentro, in fondo, c'è anche della codeina. Vabbè, farà effetto sul 30% della popolazione. Vabbè, sono solo 30 mg. Ma ci provo, devo provarci, sono alla canna del gas.

Risultati. Oggi la mia schiena è un pezzo di legno. I dorsali sono quadrati, potrei farmi la foto da bodybuilder, se non ci fosse una certa asimmetria tra destra e sinistra. Sono anche fantasticamente inutilizzabili, perché non si piegano né stanno dritti, col risultato che cammino piegata in avanti come una vecchiettina. Le vecchiettine però fanno tenerezza, io invece smadonno.

Per fortuna ho degli amici futuri anestesisti tra cui Stefano, lo stesso degli schemi di neuro, oggi mi ha portato fiale di Voltaren i.m. e siringhe. Gli ho regalato una chiappa e mi son beccata il sermone dello studente di medicina farmaco-prodigo. "Devi sempre tenere almeno un FANS serio!".

Di solito controbatto. Io, quella che prende in giro quelli che si ammalano dopo aver fatto il vaccino anti-influenzale; io, quella che non si sorbisce mai una cazziata in silenzio. Beh, proprio io oggi sto zitta. Touchè.

Sto zitta perché mi ha fatto un favore enorme. Forse riesco a mobilizzarmi prima dell'esame, se no dovevo fare il colloquio col paziente psichiatrico sdraiata in barella. Io. E lui/lei sulla sedia.

Sto zitta, è vero. Ma in fondo-in fondo penso che non sia un problema di farmaci. Il problema sono i mestieri di casa. Bisogna sempre limitarsi all'indispensabile, solo far su la polvere quando proprio non si può farne a meno. Perché se si esagera, se si vuole rifare anche il letto, poi succedono queste cose. E poi, in fondo, che senso ha rifare il letto se ogni sera, comunque, lo si disfa?

lunedì 3 febbraio 2014

Il giardino dei narcisi

Suona la sveglia. Risuona. Risuona. Maledetta me quando ho deciso di impostare la sveglia sull'iPad. Ho selezionato la ripetizione a oltranza, per essere sicura di svegliarmi al mattino. Ma, mannaggia, è snervante! 
Piove. E' buio, la tapparella è giù. Ma sento il rumore dei goccioloni che dal tetto cadono sulle ringhiere dei balconi. 
Amo la pioggia, camminare, correre, bagnarmi. Amo la pioggia, perché mette tutti in difficoltà, in una metropoli. Mi diverto da morire a vedere la gente che s'incazza al volante perché c'è coda. Gente che suona il clacson a vuoto, quando è ferma da minuti e minuti. Tutti devono svegliarsi mezz'ora prima. Le signore si preoccupano dei capelli. Le città si allagano. Molti automobilisti se ne fottono allegramente e passano a tutta velocità vicino ai marciapiedi. L'acqua ti arriva fino in faccia. I pantaloni sono zuppi. E io rido, rido.
Però è mattina e sono appena sveglia. E' mattina e oggi devo andare nel giardino dei narcisi. Nemmeno la pioggia riesce a farmi ridere.
Negli ultimi giorni ho studiato molto. La mia coinquilina si è sopportata la presenza costante di un terzo individuo, un mio compagno di corso, che è venuto qui quotidianamente e mi ha passato TUTTI i suoi schemi di neuro. Stefano è veramente un grande, non gli sarò mai abbastanza grata. Sono anni che mi rifornisce di schemi fantastici per aiutarmi con gli esami.
Oggi però iniziava il ripasso collettivo di psichiatria nel giardino dei narcisi, la mia università. E avevo promesso a Stefano di andare. Quindi mi alzo, mangio, mi lavo, mi vesto ed esco.
Non devo pensare a quello che succederà. Funziono da automa, perché se penso alle conseguenze che un'eccessiva esposizione ai narcisi potrebbe avere su di me…potrei tornarmene a casa.
Arrivo in università, cerco un'aula. Sono quella che abita più vicino, quindi mi accollo questo compito. Comunico la mia posizione a qualche persona e mi metto a studiare. Nell'arco di una trentina di minuti cominciano ad affluire. I narcisi.

Io sono allergica ai narcisi. Un po' come alle graminacee, anche i narcisi mi fanno venire l'orticaria, mi prudono le mani; mi viene un'acatisia, un'irrequietezza interna. Inizio a sentirmi irritata, inizio a muovermi, a far ballare le gambe. Un narciso ci comunica il suo punteggio di QI. Molto bene. Un altro incomincia a prendere per il culo il professore, elencando tutte le cose dette a lezione che ritiene sbagliate. Inizia il ripasso. E si parte dalla storia della psichiatria, dalla Bibbia. Il libro di Samuele. Iniziano a disquisire sui minimi dettagli, sulle minchiate. Mi sta per partire il vaffanculo. Mi distraggo un po', leggendo altro. Faccio finta di leggere un messaggio quando cercano di interpellarmi per valutare con esattezza le elucubrazioni psichiatriche di Ippocrate e Areteo di Cappadocia. Esco, fingendo di ricevere una telefonata, quando cominciano a paragonare gli elementi psicopatologici alla forza di gravità. Alla fine resisto un po'. Guardo il telefono: sono le 10. In un'ora non è stata detto ancora niente di rilevante. Hanno discusso di come impostare i minimi dettagli. Hanno espresso i loro pareri su tutte le inezie. Hanno sicuramente fatto capire al mondo che hanno ragione. Si sono espressi con la sicurezza di chi conosce il mondo da cent'anni. Sicuramente hanno più esperienza loro di qualunque prof.
Sarà pur vero. Io però sono sensibile sull'argomento, perché invece mi sento sempre un po' in deficit. E quindi reagisco male. Certi atteggiamenti mi stanno semplicemente sul cazzo (cara vecchia finezza) e - lo so - è un problema mio. Perché riescono a farmi sentire inferiore.
Quando inizio a derealizzare capisco quello che sta succedendo. Prima di evitare il tracollo, saluto e me ne vado. Torno a casa mia, sotto la pioggia. Mi sento come un animale che nel gelido inverno torna nella tana calda e accogliente. Mi sento in preda ad un'allergia tremenda.
Rimango tutto il giorno in questa sensazione. Quando inizio a derealizzare, quando mi distacco dal mio lato emotivo, poi mi ci vuole tempo. Verso le sette di sera, riesco a finire il programma. Chissà a che punto sono arrivati loro.
Oggi è stata una giornata così, sono contenta che sia arrivata la fine. Ora faccio la doccia e poi mangio, guardando tanti tanti episodi di breaking bad. Mi sono innamorata di questa serie (grazie, Nimbus!). Mi sento come Walt nell'episodio in cui a pranzo dice alla tizia "VAFFANCULO".
Sì, fanculo a tutti i narcisi.

Io non lo so se sono in grado. Non so se passerò l'esame. Non so se sono all'altezza, sono diversa da loro. Non sono per la finezza intellettuale, non sono per i passatempi signorili, non sono per la competizione. Il massimo spirito competitivo con i miei amici può esserci in una gara di rutti. Non so proprio niente, se non che domani sarà diverso da oggi. Domani riprenderò a combattere fino in fondo. E so anche che stasera preparo l'insalata con le barbabietole. E guarderò la feta colorarsi di rosa. Insieme alla pioggia, è una cosa che adoro. Sembra fosforescente.

…and I know…I may end up failing too…
but I know…you were just like me with someone disappointed in you...